Situato nella regione del Brandeburgo 80 Km. a nord est di Berlino, il campo di Ravensbrück è stato costruito, tra i primi, nel 1939 per ospitare donne tedesche asociali e delinquenti comuni, e poi donne dei paesi progressivamente occupati dai nazisti, zingare, ebree, oppositrici al regime, omosessuali, testimoni di Geova. A Ravensbrück sono state immatricolate 132.000 donne e decine di migliaia di loro hanno perso la vita, eliminate tramite fucilazione o tramite camera a gas, o morte per malattia, stenti, lavoro, fame, freddo, o a seguito degli esperimenti medici di cui erano le cavie. (A. Laurenzi)
Nel gennaio del 2016 fui invitato a una iniziativa organizzata da Ambra Laurenzi, figlia e nipote di deportate nel campo di Ravensbrück, per la Giornata della Memoria. Ambra, presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück, aveva da poco pubblicato uno struggente libro fotografico su quel campo e sulla sorte delle oltre centomila donne che vi erano passate. Quelli che seguono sono appunti provvisori e parziali preparati per quell’occasione.
Sfogliando il libro di foto di Ambra Laurenzi, sul campo di Ravensbrueck, mi colpiscono alcune cose:
La prima è la malinconica e quasi fragile bellezza del luogo, un luogo, mi viene da pensare, che come tutti i luoghi e malgrado ciò che gli umani vi hanno praticato o vi praticano, appartiene a ciò che gli indios Aymara e Quechua della Bolivia, chiamano Patchamama, o madre terra.
La seconda, che il campo è riservato a sole donne: che delle 150 mila donne che vi sono transitate, tra detenute politiche, criminali comuni, prostitute ed ebree, circa 90.000 vi sono morte. Stando alle stime disponibili, nei campi in territorio tedesco, in ordine di grandezza, ne sono morte di più solo a Sachsenhausen (100 mila).
La terza, che contiguo al campo vi era uno stabilimento tessile della Texlead (una delle aziende di proprietà delle SS che, sui campi, stavano costruendo il loro impero economico) e uno della Siemens, grande azienda privata che si avvalse, come molte altre, del lavoro coatto delle prigioniere e dei prigionieri dei campi.
Un luogo di fragile bellezza violentato per organizzare una violenza verso donne e madri, secondo procedure scientifiche che mirano a ottimizzarne l’annientamento identitario (prima di quello fisico), in quanto condizione necessaria per estrarne il massimo di profitto (produttivo ed economico) finché non sopraggiunga la loro morte, che è causata generalmente dalle stesse condizioni di lavoro e dalla malnutrizione.
Il fatto che si tratti di un campo di concentramento per sole donne, amplifica la sensazione di violenza e di sfruttamento. Una violenza e uno sfruttamento perpetrato su ciò che vi è di più sacro in quanto depositario non solo del presente, ma anche del futuro, il corpo femminile.
Il fatto che si tratti di recluse in gran parte “politiche” o “criminali e prostitute” provenienti da vari paesi e solo in parte di ebree, deve far ricordare la genesi dei campi di concentramento della Germania nazista che furono inaugurati per togliere di mezzo gli oppositori politici: comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti innanzitutto, e poi dei soggetti “asociali”; all’inizio (1933) gli “ospiti” dei campi non erano ebrei, né polacchi, o italiani, ma tedeschi. Come a dire che una volta depurata la cosiddetta razza ariana, dagli elementi critici o da quelli che costituivano “un costo sociale” (fannulloni, mendicanti, senzatetto, ecc.), la via era pienamente aperta verso lo sterminio.
In effetti, il primo campo creato dai nazisti fu quello di Dachau, in territorio tedesco, nel sud della Baviera a 20 km da Monaco, aperto il 22 marzo del 1933, un mese dopo l’incendio del Reichstag. E’ qui che viene posta per primo la scritta: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Lo slogan tante volte ricordato, non è solo un cinico espediente per convincere chi entrava nei campi di una possibile libertà futura se si fosse rassegnato al lavoro coatto, ma anche un programma operativo: i campi servono essenzialmente per massimizzare il profitto dal lavoro umano, minimizzandone, anzi annullandone i costi.
Soltanto 5 anni più tardi, nell’agosto del 1938 vi arrivano 11 mila ebrei tedeschi e austriaci, dopo la Notte dei cristalli, il pogrom contro i negozi ebrei. Nel 1939 vi arrivano gli zingari Sinti e Rom. Nel 1940 vi vengono deportati 13 mila prigionieri polacchi. Alla fine del 1941 diventa anche campo di sterminio, come peraltro tutti gli altri campi, in contemporanea con l’operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica. Lo sterminio è da attuarsi comunque, innanzitutto, attraverso la selezione imposta dalle condizioni disumane del lavoro schiavistico e dalla denutrizione, e poi parallelamente con l’uso dei gas. Quanto alle prime esecuzioni di massa in questo campo esse riguardano persone ritenute di razza inferiore: tra questi gli ebrei, ma anche i polacchi, i russi, gli zingari, gli oppositori politici e religiosi, gli inabili al lavoro. Tra i primi a subire l’annientamento di massa vi sono 4.000 prigionieri di guerra russi, nel 1942.
Il fatto che gran parte delle donne del campo di Ravensbrueck prima di approdare al loro destino di morte dovessero rendere le loro residue giornate e energie al dio della produttività tedesca, ci da un’importante informazione sulla logica e sul metodo che improntava lo sterminio: prima di esso, tutto ciò che poteva essere estratto dai corpi di queste donne, in quanto miniere di energia e di intelligenza, doveva essere estratto; ciò vale per tutti gli internati dei campi.
Quindi, la procedura contemplava una ragione contabile perfino più rilevante all’annientamento in sé: quella di un profitto capitalistico in cui, per dirla con Marx, il plusvalore assoluto non contemplava alcun costo per la riproduzione della forza lavoro. I territori da espropriare erano i corpi. E, teoricamente, ove la forza degli internati avesse consentito una produttività media accettabile e un profitto nettamente superiore ai costi organizzativi e di mantenimento, vi è da supporre che l’annientamento sarebbe stato posticipato nel tempo. Viceversa, andavano subito annientati tutti i soggetti non immediatamente produttivi, come vecchi, bambini, handicappati, ecc..
“I nazisti, colossali imprenditori di manodopera schiava, li consideravano bocche inutili da sfamare, letteralmente “zavorra umana” (ballastexistenzen) da far sparire. Nella logica criminale nazista, qualunque prigioniero considerato un “peso morto”, cioè inutile e costoso all’economia del Reich, doveva essere condannato a morte immediata; prima lo si eliminava e più si risparmiava.”
Questo ragionamento può applicarsi anche alla cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei d’Europa, che si afferma in contemporanea all’invasione dell’Unione Sovietica. Gli ebrei dell’Europa dell’est andavano sterminati in quanto la conquista e “arianizzazione” totale del Lebensraum (lo spazio vitale della Germania) che si estendeva dalla Polonia agli Urali contemplava la schiavizzazione dei popoli slavi e la eventuale cooptazione delle loro elites dentro la “razza ariana”.
In questo progetto non potevano essere contemplati gli ebrei in quanto comunità razziale specifica che si riteneva culturalmente (oltre che, secondo loro, geneticamente) diversa dagli altri popoli presenti nell’area. Il fatto che la componente ebraica nelle società centro-europee fosse storicamente collocata nell’ambito della piccola borghesia, attive nel settore commerciale, con una spiccata propensione individuale, generalmente laica, con una consistente percentuale di intellettuali e di burocrati al proprio interno, caratterizzava queste comunità come refrattarie ad una ristrutturazione sociale guidata dal grande capitale tedesco che nell’edificazione del nuovo ordine richiedeva una funzione di comando e di adesione totale da parte delle elìtes e, parimenti, una subalternità totale da parte delle masse, di cui, quelle presenti nei paesi satelliti dovevano servire a sostenere in modo subalterno lo sviluppo del Reich (paesi periferici ad ovest, a sud e a est, come la Boemia, l’Ungheria, l’Ucraina, la Polonia, la Romania e la Bulgaria), mentre per le masse russe era prevista la funzione di erogatori di lavoro schiavistico, in quanto sottorazza (Untermenschen).
Proprio per ciò lo spazio fino agli Urali era da colonizzare con l’invio di contingenti di contadini tedeschi / ariani che avrebbero dovuto dirigere la colonizzazione servendosi del lavoro schiavistico delle popolazioni locali.
Alcuni hanno visto in ciò delle analogie con la conquista degli spazi originari delle popolazioni indiane del nord e del sud America nella “occidentalizzazione” di quelle enormi distese di terre. Processi storici di durata secolare che sono passati sotto i nomi di “conquista dell’Eldorado” a sud e di “conquista dell’ovest” a nord. Vi morirono tra i 50 e i 100 milioni di indigeni. Come la conquista delle Americhe non contemplava la possibilità di sussistenza di razze conflittuali o incapaci di assumere la cultura occidentale caratterizzata dal principio di appropriazione e redditività capitalistica delle terre, anche ciò che poteva ostacolare l’edificazione del grande Reich tedesco dall’Atlantico agli Urali andava eliminato.
In più il buco demografico aperto con la loro eliminazione, avrebbe consentito una migliore e più facile “colonizzazione” degli elementi ariani tedeschi nei nuovi territori da controllare.
La conquista dell’est euroasiatico prevedeva tempi da guerra lampo, in sintonia con i livelli tecnologici raggiunti in occidente: ciò che altri avevano fatto nel corso di cento anni, andava fatto in pochissimi anni e non si poteva andare per il sottile. E’ la tempistica del progetto di conquista che informa ogni altra scelta, ivi inclusi i massacri di circa 2 milioni di russi operati nelle retrovie dell’esercito tedesco nei villaggi e nelle città già conquistate dai tedeschi nell’avanzata verso Mosca e Stalingrado, operazione che non risponde ad alcuna logica militare, ma invece prepara lo sviluppo successivo e imminente del progetto di colonizzazione. Il buco demografico che si crea con queste operazioni, serviva a rendere più rapida la successiva colonizzazione.
Analogamente, lo sterminio nei campi e la progressione del lavoro schiavo prevede la costruzione di imponenti fabbriche ad est, come quella di Auschwitz, della IG Farben, che all’epoca è il più grande complesso chimico al mondo e che viene realizzato già in avanzato territorio polacco.
Nel progetto di sterminio industriale degli ebrei (e dei russi nelle retrovie del fronte) si impone dunque un obiettivo di natura politica che va oltre quello dell’immediato sfruttamento scientifico del lavoro schiavistico e coatto: fino al 1942, quindi per 9 anni, prevale la logica della produzione a costo zero e parallelamente dello “scarto” per usare un termine di Papa Francesco. Lo scarto, chi non è sufficientemente produttivo, va eliminato subito, ma chi è redditizio può sussistere, almeno finché le energie lo sorreggono. Poi, vi si innesta già il programma di edificazione del nuovo ordine del dopoguerra, che, se funziona, durerà “mille anni”.
Non si deve dimenticare che dal 42 al 45 il lavoro schiavistico si accentua ulteriormente con la nascita di un grande numero di sottocampi nei quali, secondo gli accordi tra le SS (a cui era affidata la responsabilità dei campi e che miravano anche alla costruzione di un loro autonomo impero economico) e le grandi imprese private, i prigionieri possono essere affittati alle aziende che ne facciano richiesta, al prezzo di 6 marchi al giorno per i lavoratori specializzati e di 4 marchi per i manovali. I continui trasferimenti di migliaia di internati da campo a campo, risponde a queste necessità e richieste.
Nella storia degli universi concentrazionari, i campi di concentramento non furono inventati dai nazisti; prima di loro già gli americani, durante la guerra di secessione e gli spagnoli, durante la repressione nell’isola di Cuba, li avevano sperimentati e siamo alla fine dell’800; nei primi anni del ‘900, anche gli inglesi, nella seconda guerra boera in Sud Africa, li avevano praticati; successivamente, vi si esercitano i sovietici, con i Gulag, riprendendo una tradizione zarista ma mutuandola in un aspetto della “lotta di classe” contro gli elementi resistenti appartenenti ad alcuni ambiti delle classi borghesi (all’inizio i medi proprietari terrieri che si oppongono alla ripartizione delle terre nei Kolkoz). Il fascismo italiano invece li sperimenta in Libia, negli anni ’30, verso i nomadi arabi nord africani, mentre invece in Etiopia sperimenta l’annientamento con i gas.
La casistica dei campi è ampia quanto è ampio l’occidente.
L’esperimento nazista, all’inizio, riproduce e ottimizza cose imparate da altre esperienze; ma vi inserisce la funzione di lavoro schiavistico per conto terzi e poi, nel 1942, con la Conferenza di Wannsee, tutti i campi di concentramento diventano allo stesso tempo anche campi di sterminio di massa. Anche se soltanto alcuni hanno la funzione precipua di sterminio: Treblinka, Majdanek, Chelmno, Belzek e Birkenau in Polonia, Maly Trostenets in Bielorussia e Jasenovac in Croazia. Gli altri mantengono fino alla fine della guerra la prevalente funzione di estrazione di valore dal lavoro coatto dei prigionieri.
Per quanto riguarda la dislocazione territoriale, soltanto nei campi in territorio polacco, (Auschwitz-Birckenau, Treblinka, Belzec, Chelmno, Sobibor e Varsavia, Lublino-Majdanek, Gross-Rosen) vengono uccisi tra i 4 e i 4,5 milioni di persone. Altri due grandi campi sono quello di Jasenovac in Croazia e di Maly Trostenets, in Bielorussia, dove vengono annientati un altro milione di persone.
Mentre nei campi in territorio tedesco e austriaco e ceco, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen, Flossenbuerg, Kaufering, Mauthausen, Mittelbau-Dora, Neuengamme, Theresienstadt, e Ravensbrueck, ne muoiono 450.000. La relazione è di 10 a 1. E’ dunque la conquista dell’est che guida lo sterminio.
Il genocidio indiano nelle Americhe è giustificato con le classiche ragioni ideologiche di superiorità razziale, ma in realtà è una conseguenza dell’incapacità di trasferire in tempo reale alle masse di indigeni la cultura organizzativa e produttiva dei vincitori. Siccome la cultura dei colonizzatori europei è improntata alla redditività da lavoro mercantilista all’inizio e capitalistica poi, appare più produttivo l’annientamento degli indios (popolazione resistente o non compatibile col modello di civilizzazione esterno) e la sua sostituzione con gli schiavi deportati dall’Africa. (La deportazione nera, “black holocaust” o olocausto africano è la più grande della storia; si trattò di 12-15 milioni di africani deportati verso i paesi dei Caraibi fino al sud degli Usa; fu operata da Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia in collaborazione con i mercanti brasiliani, nord americani e africani).
Lo sterminio indigeno non necessita di campi, che sarebbero stati ingestibili sia per l’arretratezza della logistica, sia per l’enorme ampiezza dei territori. Si fa sul luogo di conquista, in tempo reale; e lo si fa in tempi mediamente lunghi, quelli indotti dal livello di sviluppo tecnologico determinato. La sostituzione successiva con i neri africani deportati avviene in campi di lavoro a cielo aperto: le piantagioni di caffè, di canna da zucchero, di cotone, ecc.
A metà del ‘900, invece, nello spazio ristretto dell’Europa e con una disponibilità di tecnologia avanzata sotto tutti i profili (logistica, organizzativa, psicologica, chimica, ecc.), il trasferimento di grandi masse di persone e il loro annientamento nei campi, con il Zyklon-B prodotto dalla stessa IG-Farben, è gestibile. In tempi ridottissimi, in linea con quelli previsti dalla guerra lampo di Hitler. Il lavoro schiavo vi può essere organizzato secondo la logica di un taylorismo estrattivo portato all’asintoto e con la riduzione totale dell’umano a merce-lavoro. Insomma sia l’organizzazione del lavoro quanto i metodi e le procedure di annientamento vi sono ottimizzati in termini industriali e, come visto, con il coinvolgimento dei massimi livelli del capitale industriale tedesco.
Nel 1944, al culmine della sua capacità produttiva, solo la IG-Farben, (il più grande conglomerato chimico al mondo, che incorporava le attuali Hochst, Basf, Bayer e Agfa), si serviva di oltre 80.000 lavoratori schiavi dei campi di concentramento. Analogamente fanno altri grandi Konzerne tedeschi, come la Krupp, che si distingue per la durezza delle condizioni a cui sottopone i lavoratori schiavi dei campi. Anche i Konzerne delle SS, la DEST (Cave e materiali di costruzione) e la DAW (Lavorazione di legno e ferro), oltre alla Texlead (produzione tessile e abbigliamento), si esercitano, anzi nascono sul lavoro schiavo nei campi.
La compenetrazione tra ragione ideologico-politica e ragione economica in queste vicende e il coinvolgimento diretto del capitalismo tedesco (e in parte di altri paesi) appare uno degli aspetti più inquietanti, una questione centrale che conferma la funzione strategica dello sterminio e dell’olocausto nella guerra imperialistica e nei progetti della Germania nazista.
Forse ne è la caratteristica precipua. Perché sul piano dell’annientamento in sé, anche sotto il profilo dei tempi di esecuzione, la bomba americana a Hiroshima e Nagasaki gli è superiore: il 6 e il 9 agosto del 1945, circa 200.000 persone, quasi tutti civili, vengono annientate in modo istantaneo e senza alcuna selezione se non quella fatta a priori nella scelta di sperimentare la bomba verso un popolo orientale, “giallo”, quindi non di razza bianca e che “rifiutava di arrendersi”. Un popolo che a sua volta considerava i cinesi una razza inferiore e che nella conquista della Manciuria aveva causato quasi 20 milioni di morti, un’entità inferiore solo ai morti russi, stimati tra i 25 e i 30 milioni.
L’altra cosa che continua a creare grande inquietudine a oltre 70 anni dai fatti che ricordiamo è ciò che potremmo chiamare il fattore identitario; la vicenda ebraica e quella del popolo Rom, ma in generale di tutti i deportati, possono essere riassunti in questo: ciò che non corrisponde al paradigma imperante (o all’ideologia dominante) deve essere marginalizzato, eliminato, annientato o, nel migliore dei casi, usato come merce. I Rom in quanto popolo nomade in uno spazio organizzato da popoli stanziali e gli ebrei in quanto popolo che non può essere riassunto e conformato dentro confini culturali nazionali, poiché la diaspora ebraica ha costruito nella storia, uno spazio inter-nazionale.
Queste identità “spurie”, secondo gli aggressori, si opponevano allo spazio indentitario nazionale (e imperiale) puro -o da purificare- che costituisce, al tramonto della modernità, il luogo di costruzione della potenza nella lunga guerra tra le potenze imperialistiche e tra i loro modelli capitalistici.
C’è da riflettere se, nell’ottica della potenza, ove si imponesse un nuovo paradigma connotato da un’ideologia globale omologata (come quella scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dal successivo crollo dell’Unione Sovietica), potrebbero essere gli elementi che si ostinano a permanere su indentità territoriali limitati o locali o che tentano di riaprire uno spazio di operatività non subalterno, ad essere marginalizzate e tendenzialmente distrutte.
Questa seconda casistica annovera già decine di esempi che si sono susseguiti dopo la II° guerra mondiale soprattutto nei continenti del sud del mondo (il lebensraum dei paesi del nord) dove i diritti umani sono stati calpestati in modo continuo e in misura solo relativamente minore rispetto ai tempi dello sterminio: l’oriente indocinese, l’Africa, l’America Latina, sono stati i campi di battaglia di una guerra che ha prodotto oltre 20 milioni di morti, in maggioranza civili, dagli anni ’50 ad oggi.
Nel gennaio 2016 ricorrono i 25 anni dall’inizio della guerra infinita decretata dalla famiglia Bush in Medio Oriente e in generale nei paesi arabi per il controllo del petrolio. Da 65 anni è in corso la guerra israelo-palestinese che contempla massacri, campi profughi, deportazioni, colonizzazioni e controllo del più grande campo a cielo aperto ad oggi esistente: quello di Gaza.
Di nuovo l’Europa è stata toccata al suo interno da queste vicende nell’esperienza di distruzione di un paese multietnico e plurinazionale come la Jugoslavia e più recentemente, di nuovo verso il “lebensraum” euroasiatico, in Ucraina.
Torna alla memoria il “Deutsches Requiem” di J.L.Borges, con una Germania sconfitta il cui compito non era quello di vincere, ma di aprire la strada ad un’epoca di violenza implacabile e permanente.
Questioni identitarie locali confliggono con le sottostanti (o sovrastanti) ragioni geopolitiche del capitale imperialistico in crisi e determinano la rinascita di un razzismo globale con innumerevoli variazioni di gradi e di intensità verso culture più lontane e verso etnie o paesi più vicini. A quello contro gli islamici si accompagna, in Europa, quello sottile e velato verso i popoli del sud che si giustifica con deludenti parametri economici, o quello rinascente verso una Russia non più comunista, ma “asiaticamente”, quindi costitutivamente, diversa.
Solo una cosa sembra non venir messa in seria discussione, o almeno gran parte dei poteri sono impegnati a frenarne l’evidenza: quella per cui la rendita finanziaria, il profitto deciso a priori, ha diritto di rimanere intatto, integro; e non può essere scalfito: si tratta di una superiorità gerarchica, quasi genetica riservata al cuore algoritmico del capitalismo del XXI secolo e ai suoi centri vitali, che mira al suo recepimento e alla sua estensione in ogni contesto planetario, ivi incluso a ciò che è già capitalistico, ma ancora refrattario alla compiuta e definitiva finanziarizzazione.
I suoi esiti più visibili sono le nuove imponenti migrazioni, digerite e trasferite dal sistema mediatico come un dato naturale che, come ogni catastrofe naturale, crea paure e sindromi di accerchiamento. Il terreno è fertile per nuove esplosioni o implosioni. Olocausti in scala minore stanno già avvenendo. Quelli maggiori non li vediamo o siamo costretti a dimenticarli rapidamente.
La guerra è in atto e i suoi variabili esiti possono essere solo immaginati. Bisogna essere vigili, oltre i nomi e le categorie conosciute o quelle che hanno acquisito l’egemonia, senza farsi abbagliare dagli slogan rivisti e corretti del “lavoro che rende liberi” o di “a ciascuno il suo”. “Se fate i bravi vi salverete”, è, come per il progetto di sterminio nazista, la menzogna regina.
Gennaio 2016
Rodolfo Ricci
di Ambra Laurenzi: